Sarà perché cittadino britannico, o per quei jeans stretti sul palco negli psichedelici '70s, o per la voce sensuale un po’ blues un po’ metal, ma questo signore mi è sempre piaciuto. Abbastanza schivo (tranne che con le groupie), affatto commerciale, ha resistito senza tirarsela troppo ai Led Zeppelin senza uscirne come una vecchia cariatide che ripercorre palco dopo palco sempre le stesse trite e ritrite canzoni pieno di botox ovunque tranne che nel piloro. I Led Zeppelin d’altro canto erano un mammuth difficilmente governabile a lungo. Al tempo di John Lennon e Mick Jagger, spudorati e anticonformisti certo, ma Robert Plant lo era di più. Sulle travi del palco, negli eccessi alcolici e sessuali da hotel, nella voce, nell’attitude. Eppure ha resistito ad un’operazione delle corde vocali, a tristi eventi familiari, alla scomparsa di John Bonham e la fine dei Led Zeppelin. Robert Plant si è reiventato in svariati progetti musicali solisti, o in collaborazione con Jimmy Pag